Pare che fra settembre e novembre, cercando di cogliere le più favorevoli condizioni da parte del mercato, verrà messo sul mercato un altro 5% sia di ENI che di ENEL, con l’obiettivo dichiarato d’incassare almeno 5 miliardi d’euro. Al momento attuale il Tesoro detiene all’incirca il 30% di entrambi gli enti, quota che in linea di diritto gli permette di controllarne le Assemblee degli Azionisti. Con questa privatizzazione questa situazione potrebbe cambiare significativamente a danno dello Stato, inaugurando potenzialmente l’uscita di ENI ed ENEL dal suo controllo ed il loro progressivo passaggio sotto la “tutela” degli azionisti privati.
E’ una storia scritta sin dai primi Anni ’90, allorché si diede inizio alle privatizzazioni a valanga che portarono alla dismissione di ingenti quote dell’industria di Stato. Sparirono, nel giro di pochi anni, l’IRI, l’IMI e tutto il resto. Gran parte delle imprese e delle banche privatizzate fecero una brutta fine, fagocitate da privati avidi ed incapaci che le portarono alla completa estinzione. Si pensi, ad esempio, al colosso Telecom completamente svuotato al proprio interno e ridotto ad un guscio vuoto.
Il motivo di questa nuova ondata di privatizzazioni, oggi come nel passato, è costituito dalla necessità di fronteggiare il debito pubblico. Il governo aveva pensato, non a caso, di privatizzare anche il 40% di Poste Italiane. Ma quando Francesco Caio, il nuovo amministratore delegato, s’è reso conto d’aver ereditato dal suo predecessore Massimo Sami un’azienda non proprio in condizioni ottimali o comunque tali da giustificarne una quotazione in borsa, al Tesoro hanno preferito soprassedere e rimandare l’operazione al 2015. Stesso discorso anche per SACE ed ENAV.
Di conseguenza, al governo, rimaneva soltanto il solito binomio ENI ed ENEL: due aziende prospere, dai brillanti fatturati, le cui azioni possono fruttare guadagni sicuri. C’è da ringraziare che non abbiano pensato anche a Finmeccanica. Ma possiamo star certi che, presto o tardi, si ricorderanno anche della sua esistenza e che opteranno per privarla di qualche altra sua preziosa componente, come già è avvenuto nel recente passato.
E così, privatizzando l’industria pubblica, si privatizza la Patria. La sovranità sarà sempre di più un ricordo e l’Italia verrà progressivamente, ma in tempi comunque molto rapidi, ridotta ad una colonia commerciale ed economica delle altre potenze, queste ultime a differenza nostra ancora dotate d’una grande industria e capaci di tutelare i propri interessi. L’obiettivo è sempre il solito: trasformare l’Europa mediterranea, di cui l’Italia fa incontestabilmente parte, in un mercato succube degli Stati Uniti (che si preparano al grande banchetto col Trattato di Libero Commercio, i cui effetti saranno ulteriormente enfatizzati dalle sanzioni russe che ci privano di un grande partner commerciale) e, in misura minore, anche della sub potenza tedesca.
In tutto questo scenario recitano la loro parte i guru politici ed intellettuali alla Oscar Farinetti che ripetono ossessivamente come l’Italia potrebbe tranquillamente crescere e prosperare rinunciando all’industria e dedicandosi esclusivamente al turismo e all’agroalimentare. Ovvero, ritornare ad una situazione non molto dissimile a quella che caratterizzava l’Italia negli anni precedenti al boom economico del Secondo Dopoguerra, quando gli italiani per sopravvivere dovevano emigrare o lavorare per poco (o per niente), dato l’elevato tasso di disoccupazione che abbassava i costi della forza lavoro. Insomma, quello che sembrava essere un brutto ricordo tornerà ad essere il nostro futuro: o andremo a fare i camerieri ed i lavapiatti in Inghilterra, oppure lo faremo qui in Italia, a beneficio dei giapponesi, degli americani o dei tedeschi che verranno a godersi il sole dello Stivale. E chi non farà il cameriere o il lavapiatti, andrà a fare il bracciante: o vogliamo essere così ingenui da credere che diventeremo tutti imprenditori, a capo di qualche ricca azienda agricola che sforna decine di migliaia di bottiglie di vino all’anno? E se non andrà bene fare nè l’uno nè l’altro mestiere, si potrà sempre andare a lavorare nelle fabbriche tedesche. Tedesche, eh: non italiane.
Dopotutto, non è forse quello che sta già avvenendo?
Questo Articolo è uno spaccato di storia di un’Italia a cavallo tra gli anni 70 e 80, storia che molti di voi non hanno vissuto e forse nemmeno conoscono ma che devono sapere perché il nostro Paese in quel periodo è stato terreno di scontri tra una destra borghese e conservatrice (dell’epoca) contro una sinistra non più sociale e proletaria ma progressista e affarista. Fu un periodo di scontri violentissimi con morti e feriti, ed è in quella fase storica che anche le FF.OO iniziarono ad usare violenza (tortura) per avere informazioni che potessero porre fine al quel periodo. Leggetelo sino in fondo, dura solo 11 minuti, ne vale la pena ! ( mentre leggete, fatevi venire in mente i fatti alla Scuola “Diaz avvenuti nel 2001 )
“COSI’ TORTURAVAMO I BRIGATISTI.“
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Di Pier Vittorio Buffa.
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‘Quegli interrogatori con botte e sevizie’
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Il commissario di polizia Salvatore Genova, nel 1982, partecipò alle indagini sul caso James Lee Dozier, il generale americano sequestrato dalla brigate rosse. Dopo il blitz che portò alla liberazione del generale si diffusero voci su torture inflitte ai terroristi. L’Espresso raccolse precise informazioni e le pubblicò, il cronista venne arrestato perché non rivelò le fonti. Genova e altri quattro poliziotti vennero poi arrestati per le violenze commesse sui detenuti ma hanno sempre respinto le accuse. Oggi, dopo trent’anni, Genova racconta cosa successe davvero in quei giorni e chi diede il via alle torture.
Usare ogni mezzo per far parlare i terroristi: era il 1982 quando l’Espresso denunciò le sevizie ai responsabili per il sequestro Dozier. All’epoca il nostro cronista fu smentito e arrestato. Oggi il commissario di polizia Savatore Genova conferma tutto: ‘Ero tra i responsabili, e ricevemmo il via libera per botte e sevizie”
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Sì, sono anche io responsabile di quelle torture. Ho usato le maniere forti con i detenuti, ho usato violenza a persone affidate alla mia custodia. E, inoltre, non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l’un con l’altro, questo dovevamo fare”.
Salvatore Genova è l’uomo il cui nome è da trent’anni legato a una grigia vicenda della nostra storia recente. Quella delle torture subite da molti terroristi tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta.
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Una vicenda grigia perché malgrado il convergere di testimonianze concordanti, le denunce di poliziotti coraggiosi e le inchieste giudiziarie la verità non è mai stata accertata. Nessuna condanna definitiva, nessuna responsabilità gerarchico-amministrativa, nessuna responsabilità politica. Solo lui, il commissario di polizia Salvatore Genova, e quattro altri poliziotti arrestati con l’accusa di aver seviziato Cesare Di Lenardo, uno dei cinque carcerieri del generale americano James Lee Dozier, sequestrato dalle Brigate rosse il 17 dicembre 1981 e liberato dalla polizia il 28 gennaio 1982. Evocare il nome di Genova vuol dire far tornare alla memoria l’acqua e sale ai brigatisti, le sevizie, le botte.
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Oggi Salvatore Genova non ci sta più. Nel 1997 aveva iniziato a mandare al ministero informative ed esposti senza avere risposte. Adesso ha deciso di fare nomi, indicare responsabilità, svelare quello che accadde davvero in quei giorni drammatici. Ecco il suo racconto.
“Questura di Verona, dicembre 1981. Il prefetto Gaspare De Francisci, capo della struttura di intelligence del Viminale (Ucigos) convoca Umberto Improta, Salvatore Genova, Oscar Fioriolli e Luciano De Gregori. È la squadra messa in campo dal ministero dell’Interno (guidato dal democristiano Virginio Rognoni) per cercare di risolvere il caso Dozier.
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Il capo dell’Ucigos, De Francisci, ci dice che l’indagine è delicata e importante, dobbiamo fare bella figura. E ci dà il via libera a usare le maniere forti per risolvere il sequestro. Ci guarda uno a uno e con la mano destra indica verso l’alto, ordini che vengono dall’alto, dice, quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete coperti, faremo quadrato. Improta fa sì con la testa e dice che si può stare tranquilli, che per noi garantisce lui. Il messaggio è chiaro e dopo la riunione cerchiamo di metterlo ulteriormente a fuoco. Fino a dove arriverà la copertura? Fino a dove possiamo spingerci? Dobbiamo evitare ferite gravi e morti, questo ci diciamo tra di noi funzionari. E far male agli arrestati senza lasciare il segno.
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Il giorno dopo, a una riunione più allargata, partecipa anche un funzionario che tutti noi conosciamo di nome e di fama e che in quell’occasione ci viene presentato. È Nicola Ciocia, primo dirigente, capo della cosiddetta squadretta dei quattro dell’Ave Maria come li chiamiamo noi. Sono gli specialisti dell’interrogatorio duro, dell’acqua e sale: legano la vittima a un tavolo e, con un imbuto o con un tubo, gli fanno ingurgitare grandi quantità di acqua salata. La squadra è stata costituita all’indomani dell’uccisione di Moro con un compito preciso. Applicare anche ai detenuti politici quello che fanno tutte le squadre mobili. Ciocia, va precisato, non agì di propria iniziativa. La costituzione della squadretta fu decisa a livello ministeriale.
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Ciocia, che Umberto Improta soprannomina dottor De Tormentis, un nomignolo che gli resta attaccato per tutta la vita, torna a Verona a gennaio, con i suoi uomini, i quattro dell’Ave Maria. Da più di un mese il generale è prigioniero, la pressione su di noi è altissima.
Il 23 gennaio viene arrestato un fiancheggiatore, Nazareno Mantovani. Iniziamo a interrogarlo noi, lo portiamo all’ultimo piano della questura. Oltre a me ci sono Improta e Fioriolli. Dobbiamo “disarticolarlo”, prepararlo per Ciocia e i quattro dell’Ave Maria. Lo facciamo a parole, ma non solo. Gli usiamo violenza, anche io. Poi bisogna portarlo da Ciocia in un villino preso in affitto dalla questura. Lo facciamo di notte. Lo carichiamo, bendato, su una macchina insieme a quattro dei nostri. Su un’altra ci sono Ciocia con i suoi uomini, incappucciati. Fioriolli, Improta e io, insieme ad altri agenti, siamo su altre due macchine. Una volta arrivati Mantovani viene spogliato, legato mani e piedi e Ciocia inizia il suo lavoro con noi come spettatori. Prima le minacce, dure, terrorizzanti: “Eccoti qua, il solito agnello sacrificale, sei in mano nostra, se non parli per te finisce male”. Poi il tubo in gola, l’acqua salatissima, il sale in bocca e l’acqua nel tubo. Dopo un quarto d’ora Mantovani sviene e si fermano. Poi riprendono. Mentre lo stanno trattando entra il capo dell’Ucigos, De Francisci, e fa smettere il waterboarding.
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Dopo qualche giorno l’interrogatorio decisivo che ci porterà alla liberazione di Dozier, quello del br Ruggero Volinia e della sua compagna, Elisabetta Arcangeli.
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Io sono fuori per degli arresti e quando rientro in questura vado all’ultimo piano. Qui, separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli, ma sarei potuto essere io al suo posto, probabilmente mi sarei comportato allo stesso modo. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie.
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È uno dei momenti più vergognosi di quei giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale e dopo pochi minuti parla, ci dice dove è tenuto prigioniero il generale Dozier. Il blitz è un successo, prendiamo tutti e cinque i terroristi e li portiamo nella caserma della Celere di Padova. Ciascuno in una stanza, legato alle sedie, bendato, due donne e tre uomini. Tra loro Antonio Savasta che inizierà a parlare quasi subito, e proprio con me, consentendoci di fare centinaia di arresti.
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Ma le violenze non finiscono con la liberazione del generale. Il clima è surriscaldato. Tutti sanno come abbiamo fatto parlare Volinia e scatta l’imitazione, il “mano libera per tutti”. Un gruppo di poliziotti della celere, che si autodefinisce Guerrieri della notte, quando noi non ci siamo, va nelle stanze dove sono i cinque brigatisti e li picchia duramente. Un ufficiale della celere, uno di quei giorni, viene da me chiedendomi se può dare una ripassata a “quello stronzo”, riferendosi a Cesare Di Lenardo, l’unico dei cinque che non collabora con noi. Io non gli dico di no e inizia in quell’attimo la vicenda che ha portato al mio arresto. La mia responsabilità esiste ed è precisa, non aver impedito che il tenente Giancarlo Aralla portasse Di Lenardo fuori dalla caserma. La finta fucilazione e quello che accadde fuori dalla caserma lo sappiamo dalla testimonianza di Di Lenardo. Io rividi il detenuto alle docce. Degli agenti stavano improvvisando su di lui un trattamento di acqua e sale. Li feci smettere ma non li denunciai diventando così loro complice.
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La voglia di emulare, di menar le mani, di far parlare quegli “stronzi” non si ferma a Padova. Di Mestre so per certo. Al distretto di polizia vengono portati diversi terroristi arrestati dopo le indicazioni di Savasta. I poliziotti si improvvisano torturatori, usano acqua e sale senza essere preparati come Ciocia e i suoi, si fanno vedere da colleghi che parlano e denunciano. Ma l’inchiesta non porterà da nessuna parte.
Quando i giornali cominciano a parlare di torture e scatta l’indagine contro di me e gli altri per il caso Di Lenardo mi faccio vivo con Improta, gli dico che non voglio restare con il cerino in mano, che devono difendermi. Lui promette, dice di non preoccuparmi, ma solo l’elezione al Parlamento propostami dal Partito socialdemocratico mi toglie dal processo. Gli altri quattro arrestati con me vengono condannati in primo grado e, alla fine, amnistiati.
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Noi non siamo mai stati in prigione. Io venni portato all’ospedale militare di Padova e lì mi venivano a trovare funzionari di polizia per informarmi delle intenzioni dei magistrati. Tra le mie carte ho ritrovato un appunto dattiloscritto che mi venne consegnato in quei giorni. È una falsa, ma dettagliatissima, ricostruzione dei fatti che dovevamo sostenere per essere scagionati. Suppongo che lo stesso foglio venne dato anche agli altri arrestati perché non ci fossero contraddizioni tra di noi.
Io me ne sono restato buono per tutti questi anni perché non volevo far scoppiare lo scandalo, fare arrestare tutti quanti.
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Oggi, guardandomi indietro, vedo con chiarezza che ho sbagliato, che non avrei dovuto commettere quelle cose, né consentirle. Non dovevo farlo né come uomo né come poliziotto. L’esperienza mi ha insegnato che avremmo potuto ottenere gli stessi risultati anche senza le violenze e la squadretta dell’Ave Maria”.